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La mia esperienza nella guerra del Burundi

Nel 1996 la guerra era la protagonista indiscussa. Arrivai in Burundi con uno zaino rosso di quelli che si usano in montagna e una grande valigia con le rotelle. L'avventura era cominciata all'aeroporto di Torino. Munita di una lettera del Governo nella quale si dichiarava che viaggiavo in missione umanitaria, mi ero presentata con sessanta chili in più di quanto permesso. Il funzionario della compagnia aerea cercò di aiutarmi. In ogni modo era una sfida portare tutto quel carico per una persona di 49 chili (il mio peso di quel tempo). Il funzionario mi condusse in un'altra sala e risistemò i pacchetti di caffè, pasta, la moka e tante lattine e pacchettini di cibo. Chi mi avesse visto in quel momento avrebbe detto che ero in partenza per un'isola deserta. Dopo aver sistemato tutto, con l'aiuto di quel giovanotto, misi lo zaino sulle spalle e partii. Al momento di salire la scala dell'aereo persi l'equilibrio. Un signore che era dietro di me cercò di aiutarmi, ma nel sentire il peso dello zaino cominciò ad urlare: «Questa donna è un pericolo!». Il commissario prontamente scese le scale per aiutarmi e nel momento in cui prese il mio zaino disse qualcosa come “misericordia” in portoghese.
Quando arrivai in Burundi non riuscii a rimettere lo zaino così pesante sulle spalle. I commissari di bordo mi aiutarono a farlo scendere dall'aereo e il tragitto fino all'ufficio immigrazione fu una sfida personale. Trascinavo lo zaino e le valigie che ci erano state consegnate sulla pista di sabbia dell'aeroporto, dove l'aereo era atterrato. Davanti ai poliziotti burundesi cominciai a tremare di paura. In un paese in guerra il cibo ha un valore inestimabile. «Bonjour madame!». Finsi di non conoscere il francese e risposi in italiano: «Buongiorno!». Io avevo già parlato in lingua francese nel Burkina Faso, ma decisi, istintivamente, di fare finta che non capivo nulla di ciò che mi dicevano. Gli uomini mi chiesero di aprire quella valigia così pesante. Io dissi qualcosa sul caldo che faceva lì. Loro mi guardarono e ripeterono la richiesta. Ancora una volta feci finta di non capire. Siccome la coda si allungava, uno di loro disse: «Non capisce niente, lasciala andare!». E così evitai il controllo doganale.

I cibi che avevo portato con tanto sacrificio furono tutti rubati dalla casa del progetto. Incluso il mio bel zainetto rosso. Era stato uno sforzo inutile. La conseguenza di quello sforzo è stata un problema alla colonna vertebrale che mi perseguita ancora oggi. Che ci posso fare?

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